Il licenziamento può essere imputato per giusta causa, (quindi in tronco e senza preavviso, per gravi inadempimenti del lavoratore), per giustificato motivo soggettivo (per comportamenti meno gravi della giusta causa) o per giustificato motivo oggettivo.
In quest’ultimo caso il licenziamento non dipende da comportamenti del lavoratore, ma deriva da problematiche aziendali. In quest’ultima tipologia rientra il licenziamento economico.
Il licenziamento per motivazione economica rappresenta appunto la facoltà del datore di lavoro di licenziare il dipendente a causa di avvenimenti legati al riassetto organizzativo dell’azienda, salvo si tratti di un mero “incremento di profitto”.
La Cassazione si è così pronunciata: affinchè il licenziamento sia legittimo non è necessario registrare un andamento economico negativo, <<è sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa>>.
Le ragioni che possono essere considerate legittime come licenziamento per motivi economici sono ad esempio il licenziamento per calo lavoro, una possibile cessazione dell’attività produttiva o il fallimento di questa; l’esternalizzazione delle mansioni del lavoratore; la soppressione del posto o del reparto in cui è impiegato il lavoratore; l’utilizzo di nuove tecnologie “programmate” da altri; una migliore efficienza gestionale e un incremento della redditività d’impresa.
Affinché il licenziamento sia valido devono sussistere una o più sfavorevoli situazioni non occasionali che influiscono in modo decisivo sulla normale attività produttiva; oppure la necessità di sostenere notevoli spese straordinarie.
In caso di licenziamento per riorganizzazione aziendale, nella scelta del dipendente da licenziare, il datore di lavoro non ha libero arbitrio ma deve attenersi ai criteri della contrattazione collettiva, ovvero anzianità di servizio e carico familiare.
In ogni caso, prima di procedere al licenziamento, il datore deve verificare l’impossibilità del c.d. repêchage, ovvero di poterlo riassegnare ad altre mansioni libere nella medesima azienda altrimenti al lavoratore spetta un’indennità risarcitoria compresa tra 12 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Il licenziamento, pena l’inefficacia, deve essere comunicato al lavoratore in forma scritta, assieme ai motivi che lo hanno generato.
Anche in questo caso il datore di lavoro è obbligato a rispettare i termini di preavviso, previsti per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, ed a corrispondere immediatamente il TFR.
Il lavoratore potrà in seguito presentare richiesta all’Inps per l’assegno di disoccupazione.
Il lavoratore in caso di impugnazione del licenziamento illegittimo ha diritto, oltre che alla reintegra nel posto di lavoro, a percepire un’indennità di licenziamento pari alle retribuzioni che gli sarebbero spettate dal giorno del licenziamento a quello di rientro.
Il licenziamento per crisi aziendale scatta in situazioni in cui la produzione aziendale non è in grado di far fronte alla spesa per lo stipendio del lavoratore.
La legge ritiene legittimo il licenziamento dettato solo dalla necessità di incrementare efficienza e redditività infatti il datore di lavoro nel motivarlo deve indicare le ragioni effettive della sua scelta, che non possono mai corrispondere a motivi discriminatori, antipatie personali o difficoltà di relazione.
È infatti illegittimo il licenziamento giustificato da una crisi che i bilanci però non dimostrano.
Questo può essere impugnato purché si dimostri che la motivazione è generica e che la crisi aziendale è insussistente.
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